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Stagione 2023/24

Il corpo delle parole: appunti per un viaggio lungo un anno

Ora, modificare la funzione della parola a teatro, significa servirsi della parola in senso concreto e spaziale, sino a confonderla con tutto ciò che di spaziale e di significativo sul terreno concreto il teatro contiene; significa manipolarla come un oggetto solido e che smuove le cose, prima nell’aria, e poi in un terreno infinitamente più misterioso e segreto, ma tale da consentire una estensione, e questo terreno segreto ma esteso non sarà poi difficile identificarlo da un lato con quello dell’anarchia formale, dall’altro con quello della creazione formale continua.
Antonin Artaud, Teatro Orientale e Teatro Occidentale

24 luglio. Su una trave che regge il soffitto dello studio di Brecht sono dipinte le parole: «La verità è concreta».
Sul piano di una finestra c’è un asinello di legno che può assentire con la testa. Brecht gli ha appeso intorno al collo un cartellino, dove ha scritto: «Devo capirlo anch’io».

Walter Benjamin, Conversazioni con Brecht. Appunti da Svendborg

Sì, ma è vero poi. – Quelle che importano davvero, sono le parole. – E sai che cosa sono, le parole? – Ma sono come delle mani, sì. – Sono le mani per le cose che non ti puoi toccare. – Le cose che non te le tocchi, capisci, tu le dici, quelle.
Edoardo Sanguineti, Storie naturali

 

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Una vasta stanza in penombra. Quadri alle pareti. L’Infanta Margarita, Doña Maria Augustina de Sarmiento e Doña Isabel de Velasco, la sua nana e il suo mastino... Don Diego che dipinge. Uno specchio, là, nel fondo, di fianco al portone semiaperto. Due profili affiorano dal buio, incorniciati da un sipario... Io? tu? Ma no! Guarda più attentamente: il Rey Planeta e donna Marianna d’Asburgo. Nel 1966, Michel Foucault, tutto intento a decifrare il capriccio dell’impossibile e vertiginosa geometria di sguardi e rifrazioni progettata da Velázquez nel suo celeberrimo enigma Las Meninas, reperiva le coordinate imprescindibili per perimetrare e orientare la sua inchiesta filosofica intorno alle origini delle scienze umane, formulando un’antitesi – o endiadi? – folgorante: «les mots et les choses», le parole e le cose. È proprio di lì – da questo titanico scontro, o insaziabile amplesso – che si deve partire...

Le parole e le cose. Esaurita nella scorsa stagione la ricognizione del rapporto tra realtà e rappresentazione, dopo essersi concentrata sul rebus di ciò che esiste, l’indagine del Piccolo Teatro di Milano intorno agli sviluppi dell’esperienza scenica agli albori del nuovo millennio incappa ora, fatalmente, nel mistero del linguaggio. Superata l’inclinazione all’afasia di tanto Nuovo Teatro, vinta la fascinazione per gli splendidi e abbacinanti tableaux del Teatro d’Immagine di fine Novecento – approdo estremo del gesto avanguardistico, dell’happening e della deriva postdrammatica – la scena, varcata la soglia del XXI secolo, sembra oggi conoscere una appassionata e radicale riscoperta della parola. «(1) In principio era il Verbo», spiega Giovanni «e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. (2) Egli era, in principio, presso Dio: (3) tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. (4) In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; (5) la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta». È una parola densa e viscerale quella che anima la scena del nostro presente: plastica, materica, dinamica, tattile. Da gustare e modellare, scolpire e allenare. Parola che risuona nello spazio. Parola che si fa corpo, parola che si fa gesto e azione, parola che si fa conflitto. D’altronde, sempre Giovanni non ci insegna che: «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»? Non idea astratta o concetto, dunque, ma flatus vocis: respiro che accarezza e solletica, grido che scortica, riso che vezzeggia e sbeffeggia, gemito che scioglie e intenerisce. È una vera e propria “fisica delle parole” quella proposta col cartellone del Piccolo Teatro, per la stagione 2023/2024. Una fisica delle parole, sempre pronta a ribaltarsi in anatomia. Un’indagine minuziosa sulla parola e sui suoi diversi usi e registri teatrali, sulle sue molteplici possibilità. Sulle sue molte declinazioni e altrettante coniugazioni. Tentando diversi orizzonti. Spingendosi a disparate latitudini. Discorrendo da tragedia a commedia. La parola teatrale è in primis colta nel suo dialogo con la letteratura, a partire dal gran laboratorio del romanzo, bachtinianamente nutrito di storia e filosofia, armi e amori, cortesie e audaci imprese. Un epos sterminato che abbraccia vivi e morti e non si nega nemmeno alla musica e alla poesia. La parola è poi inseguita sul terreno più propriamente teatrale della drammaturgia: dalle sue codificazioni classiche alle sue reinvenzioni “critiche” novecentesche e postnovecentesche, alimentata di autofinzioni, pastiche citazionisti, concertazioni didattiche, narrazioni, inchieste documentarie e affreschi sociologici o grottesche puntate nell’assurdo e nel nonsense. Liberata dalle norme delle grammatiche più ortodosse, la parola poi si estende e si moltiplica e si potenzia, intrecciandosi agli altri linguaggi, e da trampolino per i lazzi della “commedia all’improvviso” di Goldoni, trascorre a “passo” e figurazione: cellula compositiva e paradigma del linguaggio coreografico. E ancora oltre. Fino a diventare matrice generativa (e fatalmente trasformazionale) della performance o dell’installazione. Una parola che sta e germina e vive, come nei drammi-paesaggio di Gertrude Stein. Ecco: proprio nell’ecfrasi della parola che nomina il paesaggio, tocchiamo forse il punto più profondo e vero di questo dolce e violento corpo a corpo con le parole. Un luogo segreto e innominabile che ci interroga e ci mette in discussione radicalmente. «O greggia mia che posi, oh te beata, / che la miseria tua, credo, non sai! / Quanta invidia ti porto!», cantava l’anonimo pastore di Leopardi, vagando per gli sterminati altopiani dell’Asia, nel diafano bagliore della luna. Nel suo essere animale fabbro di parole, dove trova l’uomo la sua più propria e genuina natura? E che rapporto si dà tra il cosiddetto “antropocene”, o età dell’uomo, e il linguaggio? La parola annienta la natura e la realtà o le fonda? Come nel fascinoso giardino di Armida di tassiana memoria, in un vertiginoso gioco di specchi, sempre buono per parlare di teatro, arte e natura, parole e cose, sono oggi, per noi, ormai indistinguibili: «Stimi (sì misto il culto è co ’l negletto) / sol naturali e gli ornamenti e i siti. / Di natura arte par, che per diletto / l’imitatrice sua scherzando imiti».
Claudio Longhi